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In viaggio con Carol Rama

di Caroline Corbetta

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22 aprile 2009

Da diversi anni un'amicizia lega Antonio Marras all'artista torinese, oltre a una somiglianza di intenti e di modi del dire e del fare. Complice il tema dell'urgenza, i due si danno appuntamento a Torino, nella casa di lei, pronti a partire per un nuovo viaggio dell'immaginazione

Carol Rama aspetta Antonio Marras sul pianerottolo della sua mansarda torinese. È felice, raggiante. Sottile nel fisico ma intensa nell'aura che emana. Come d'abitudine è vestita di nero e indossa la giacca-kimono - anch'essa nera - regalo dello stilista. Si sono conosciuti a Torino nel 2004, per organizzare poi insieme ad Alghero la rassegna «Noi facciamo, loro guardano».
«Mi son messa la treccia», esclama lei garrula, sottolineando l'importanza dell'evento con la sua caratteristica acconciatura, quella corona di capelli intrecciati biondo tiziano che le cinge la fronte da quando, negli anni Settanta, il leggendario artista Man Ray gliela suggerì. Qualche settimana fa, a un gala newyorkese, la diva Bjork sfoggiava un'identica pettinatura, l'unica differenza era la sfumatura corvina, ma la citazione era palese: un omaggio a questa donna coraggiosa e scomoda che ha usato il linguaggio artistico per esprimersi, ma che è rimasta ai margini del sistema per troppi anni.
Nel 1980, includendola nella collettiva «L'altra metà dell'avanguardia», la critica Lea Vergine ha riacceso l'attenzione nei suoi confronti e nel 2003 è arrivata la consacrazione definitiva - e certo tardiva - del Leone d'oro alla carriera alla Biennale di Venezia. La statuetta è su una mensola nella camera dove si svolge il "convegno d'amore" di Carolina, in arte Carol, e del bell'Antonio da Alghero. È una stanza dal tetto spiovente, zeppa, come il resto della casa, di oggetti, opere d'arte e ricordi. I muri sono di varie tonalità di grigio, lei non ha mai voluto che venissero imbiancati. Quando è stato necessario ha chiesto che fosse passato del grigio che ha assunto sfumature diverse. Con la sensibilità cromatica che esercita tutti i giorni nel suo lavoro Marras dice: «Trovo meravigliosi i colori della tua casa: sono grigi ma non solo grigi, ci sono tonalità verdi che si mischiano con il beige e poi torna l'écru. Non mi piacciono le vie di mezzo, le uniche vie di mezzo meravigliose sono questi colori che non sono neri, che non sono grigi, che non sono beige...».
Antonio ama Carol. Si mette accanto a lei, che siede in una poltrona come fosse un trono, oppure si posiziona ai suoi piedi, fissandola in ammirazione e incalzandola con domande giocosamente provocatorie alternate a teatrali dichiarazioni d'amore. È affascinato dal suo carisma da diva d'altri tempi, dal suo talento indomabile e dall'urgenza creativa che sprigiona ancora, anche se non lavora più da qualche anno. E Carolrama, scritto tutto attaccato come firmava le sue opere, ama la "faccia da cattolico" di Antonio Marras, come l'ha definito al loro primo incontro. «Non mi hai neanche toccato la testa questa volta - si lamenta lui -, prima ti piaceva. Ero seduto vicino a te, proprio qui, in adorazione. Mi piace guardarti da questa prospettiva perché sei molto grande e io mi sento molto piccolo, mi piace guardarti così». Lei, compiaciuta della piccola folla che la circonda, ma anche un poco disorientata, rivolge lo sguardo verso il suo galleristatutore, Franco Masoero, provocando in Marras un melodrammatico gemito di disappunto: lui "fa" il geloso. Ma, pazientemente, riesce a riattivare l'alchimia che li lega. Le ha portato in dono una nuova, sontuosa giacca-kimono che la fa erompere in una serie lunghissima di «bello! bello! bello! bello! bello!», esclamati con una vocina infantile e un poco gracchiante. «E poi ti ho portato anche dei cioccolatini». E lei sorpresa: «Cioccolatini?!». «A una donna cosa si regala? I fiori so che non sono proprio del tuo...». La femminilità che Carol incarna con la sua esistenza e rappresenta nelle opere non è convenzionale. L'uso delle parolacce nel suo interloquire è naturale come il ricorso all'erotismo esplicito nelle sua arte. È un'urgenza, non una strategia, un modo di esprimere un'identità che altrimenti non trova definizioni.
«Carol, quando viaggi con chi viaggi?», chiede Marras, riportandola improvvisamente nella stanza da cui ogni tanto sembra assentarsi per rincorrere reminiscenze ed energie. «Con me stessa perché è qualcosa che devo controllare. Viaggio nei ricordi, alcuni un po' cattivi. Son sempre stati guastati i miei viaggi...». Molte delle frasi che l'artista dice sono suggestive come delle immagini: «Il vento mi fa sentire interessante». «Essere cattivo vuol dire avere un alito scomodo». «Il coraggio serve sempre perché è clandestino. Però il coraggio vero bisogna pagarlo, sennò diventa un assassino. Lui di tendenza è cattivo, è delinquente, è orientato a essere malvagio. E invece se io lo difendo qualcosa rimane».
Marras crea l'occasione per viaggi metaforici sfoderando un atlante di epoca fascista a cui Carol Rama reagisce: «Mussolini era un pirla!». Poi pare rapita da quei mondi rappresentati, lei che ha fatto diversi lavori camminando sulle carte geografiche. «C'è anche la mia Sardegna», dice lo stilista sfogliando le pagine. «Quando mi chiamavi, perché eri innamorata di me - ora non più -, mi dicevi cose bellissime, tipo che volevi entrare nella cornetta, passare attraverso il filo per raggiungermi. Ci credevo... ma ormai queste cose non me le dici più». «Perché non lo sento più!», replica lei con disarmante schiettezza; ma lui ribatte: «Ero molto felice quando tu mi chiamavi e urlavi, "quando arrivi?!"». Intanto lei ha iniziato a disegnare e scrivere sulle cartine con il rossetto rosso scuro, come sangue coagulato, che le ha offerto la moglie di Marras, Patrizia.
  CONTINUA ...»

22 aprile 2009
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